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Giacomo Leopardi: Un gourmet? Un sommelier? Un goloso? No, un moderno eno-gastronauta!

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Rubrica: Giacimenti Culturali & Enogastronomici

 

INTERVISTA a Giacomo  a cura del Dottor Fabio PIERANTONI della Condotta Slow Food di Corridonia

Anche in questa occasione, per ovvie ragioni, farò la consueta intervista cercando di dare un taglio interpretativo, diverso dalla solita vulgata, con l’ausilio di estrapolazioni dagli scritti leopardiani.

D: chi è il conte Giacomo Leopardi?
R:  al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi,; e sono nato a Recanati, un piccolo paese in Provincia di Macerata nelle Marche, il 29 giugno 1798 e sono morto a Napoli, 14 giugno 1837. Sono stato un poeta, filosofo, scrittore, filologo, ritenuto il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della  riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana – di ispirazione sensista e materialista – mi fa anche apparire come un filosofo di spessore. La qualità lirica della mia poesia mi ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la mia epoca.

D: cioe?
1R: nel 1821 nello Zibaldone (pag. 1738) ho scritto: “Chissà che l’aereonautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato degli uomini?” mentre 5 anni (1826 pag. 4198) dopo ho fatto questa riflessione:” … se i palloni aerostatici, e l’aereonautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà, ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi,, ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverosimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto, certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportare la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta e imperfetta la navigazione aerea, l’uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri mezzi di comunicazione, la loro incertezza…” . Ma secondo Claudio Principi nel suo inedito “L’apporto dei marchigiani al progresso aereonautico”, questa riflessione impone di soffermarsi sulla parola “aereonautica”; va precisato –secondo un rinomato vocabolario- che il termine aereonautica compare per la prima volta come aggettivo nel 1695 ma fino al XIX secolo fu scarsamente usato. Orbene, precisa Principi, per la sicura e gradita sorpresa di molti, il primo scrittore a fare uso del termine “aereonautica” come sostantivo fu proprio il nostro poeta, per cui oltre ai suoi meriti di vaticinatore vanno aggiunti quelli di vessillifero lessicografico;

 

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D: hai altre stranezze per il tuo tempo?
R: tra il 1824 e il 1826 ho scritto “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” che è stato pubblicato postumo, circa 60 anni dopo la mia morte, che quindi appare slegato dalla collocazione storica pre-unitaria e dato il persistere di questo stato anche nel presente odierno sembra delineare un’incapacità strutturale, genetica, endemica del popolo italiano. La mia diagnosi correttamente vede la società priva di princìpi e che deve fondarsi sulla vicendevole stima dell’onore e del rispetto reciproco, se vuole sopravvivere; deve creare un comune impianto di vedute –moda, linguaggio, comportamenti, costumi- che permetta alla società di misurarsi, riconoscersi, determinarsi. Ma a differenza di Francia, Germania e Inghilterra la società italiana sembra aver subito solo gli aspetti esclusivamente demolitori dell’Illuminismo. ….«il clima che gl’inclina a viver gran parte del dì allo scoperto, e quindi a passeggi e cose tali, la vivacità del  italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e degli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia…. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società….. ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera da sé…. or la vita degli italiani è senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente….. ciò nasce anche dalla naturale debolezza dell’intelletto e dalla facoltà elettiva… le quali hanno sempre bisogno come di un appoggio, come di una sicurtà e di un garante delle loro determinazioni…. e il rimedio … è l’autorità…. l’uomo prova un certo piacere, un senso di riposo, un’opinione o una confusa immaginazione di sicurezza, ricorrendo all’autorità, assidendosi sotto l’ombra sua…. Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare…. così… l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggiore peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale. …  la canzonatura e punzecchiatura… occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia….. Gli italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi che sono seguite per assuefazione…. dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, e in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta… L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, cos tantissima; l’inattività… efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero ghiaccio.» Penso che ogni riferimento allo stato presente degli italiani sia puramente causale.

D: e la critica come ti ha trattato?
2RDe Sanctis ha scritto: «[Leopardi] non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. […] È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti.»  Schopenhauer  «Leopardi ha sempre amato la vita e l’uomo, anche quando sembra che la sua condanna sia senza appello. Egli ha cercato, sempre, di andare nella profondità dell’uomo senza rassegnarsi mai del tutto all’insensatezza, anzi partendo proprio dalla miseria della sua condizione per spingerlo a rialzarsi.» Nelle Lezioni americane, Italo Calvino prende Giacomo Leopardi come il poeta capace di descrivere le più minute e impalpabili sfumature della luce, soprattutto di quella lunare: «Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare»

 

 

D: anche se hai citato solo quelle buone, confermiamo tali giudizi. Lo sai che è stato calcolato il valore del brand Recanati, il borgo natio, grazie alla tua attrazione?
R: a partire dai poeti, la letteratura è una questione di brand economico. Centri minori di poche anime sparsi lungo la penisola che debbono la propria riconoscibilità al “big” letterario che qui è nato, oppure vi ha soggiornato, rendendoli celebri e immortali nei loro versi. E così il Colle dell’Infinito è caro non solo a me: attraverso la mia poesia ho fatto triplicare la riconoscibilità di Recanati. In pratica in termini di reputazione economica, il brand della località maceratese mi “deve” più di 1,4 miliardi di euro. E’ quanto emerge da una stima dell’Ufficio Studi della CCIAA di Monza e Brianza a partire dall’Anholt Brand Index. Il valore aggiunto del brand per Recanati è stato calcolato sulla base di alcuni parametri di vivacità economica e imprenditoriale, e prendendo in considerazione il valore economico del territorio, la conoscibilità dei luoghi e dei personaggi, è confrontato con realtà analoghe con le stesse caratteristiche, ma senza il poeta.

                                                     

Aumento del brand dovuto al “poeta” (in euro)

Giacomo Leopardi Recanati MC 1.438.989.000
Giovanni Verga Aci Trezza CT 826.613.000
Catullo Sirmione BS 577.043.000
Carlo Levi Eboli SA 500.077.000
Carlo Collodi Collodi PT 389.745.000
Giovanni Boccaccio Certaldo FI 348.845.000
Giosuè Carducci Bolgheri LI 113.134.000
Gabriele D’Annunzio Gardone Riviera BS 87.163.000

 

D: dopo questo preambolo , scandagliando le tue opere, perché non ci fai ritrovare il filo logico che ti lega alla gastronomia, dalla giovinezza alla morte?
R: vorrei premettere che la ricerca fatta recentemente da Tommaso Lucchetti ha confermato il mio grande amore per la natura, per il paesaggio, come per l’agricoltura e per i prodotti agricoli, per il folclore come per le tradizioni, ma soprattutto il  grande attaccamento alla mia terra intriso di amore e odio; la mia “marchigianità” ha fatto sì che, quando vivevo a Recanati, ambivo a oltrepassare i confini che la siepe “il guardo esclude”, mentre, quando ero lontano, a Bologna come a Firenze, avevo nostalgia per la mia terra  ed ero attanagliato dal desiderio di rivivere con i miei cari le tradizioni di famiglia, per poter gustare le uova sode a Pasqua, i cappelletti e le cialde a Natale, i dolci fritti a Carnevale e la “bragiola” nella festa dei Cappuccini;

 

D:  allora perché non partiamo dalla giovinezza?
3R: dovete sapere che quasi contemporaneamente alla mia nascita, le Marche papaline furono sconvolte nell’immoto ordine dalle insaziabili ed esose truppe napoleoniche. Mio padre Monaldo, come tutte le altre famiglie patrizie recanatesi, dovette soddisfare i famelici invasori ma anche mettendo alla prova il suo essere nobile in quanto fu costretto a bere in una Bettola, osteria infrequentabile per il suo status nobiliare che gli permetteva, al massimo, di sedere in un caffè dall’aurea più intellettuale, come da settecentesca tradizione illuministica. Debbo dire che mio padre Monaldo, pur animato da una passione per il bello, amante della musica e patrocinatore di espressioni di spettacolo, con una passione civica tradotta in filantropia, causò danni alle finanze di casa, e dietro una voragine di debiti, fu costretto, per l’interdizione all’amministrazione del nostro patrimonio, ad affidare la gestione alla moglie Adelaide, mia madre. E’ risaputo che, grazie al suo piglio risoluto ed austero con cui gestì la contabilità e le entrate di casa, si risanò le finanze di casa Leopardi.

 

D: ci racconti gli aneddoti dei tuoi genitori legati alle uova?
R: nel paese era sulla bocca di tutti, al punto da diventare nel tempo “leggendario”emblema della carogneria dei padroni marchigiani verso i mezzadri, quel famigerato cerchietto di legno che costituiva il vaglio ufficiale per le uova portate dai contadini  a mia madre Adelaide Antici in Leopardi: quelle che passavano attraverso questo strumento erano restituite e quindi non computate tra le regalie dovute. A proposito di uova, mio padre Monaldo ripeteva con sopita ironia: “In questa casa sono padrone soltanto delle frittate”; era una delle poche facoltà nel disporre ordini appena rientrato a casa, in quanto poteva chiedere  una frittata come merenda  o spuntino ai domestici in cucina. E’ vero anche che il criterio oculato di gestione delle risorse congeniale alla smania di risparmio e rientro di debiti di mia madre Adelaide derivino presumibilmente  dai  principi che ritroviamo negli spunti di Antonio Nebbia autore de “Il cuoco maceratese” (nelle pagine di apertura: “nel mestier della cucina vi vuole il discernimento di considerare bene quello che può bastare per una tavola di dodici persone, e sarebbe uno sproposito di farlo bastare  per persone venti”) che sembra abbia lavorato in cucina proprio a casa Antici, nella dimora materna di mia madre;

 

D: e il giovane goloso?
R: tra le mie prime ingenue canzonette scritte all’età di 11 anni, così descrivevo il ristoro giornaliero nelle famiglie dei contadini: “A frugal mensa si assidono/ Sol d’incolte erbe imbandita/ ma d’ogni altra mensa splendida/ assai più da lor gradita/ Lieti il dolce vino bevono/ Alla grata mensa amica, / e fra loro ognum dimentica/ la sofferta aspra fatica”. Il nostro pranzo prevedeva sempre almeno tre portate, oltre la minestra, piccola grande nota dolente sulla quale mia madre particolarmente intransigente: durante i pasti era solita legare noi bambini alla sedia, per imboccarli. A me come a molti bambini , quella “sbobba”, spesso servita con intento rigenerante e curativo non andava giù e così ho scritto la piccola e scherzosa composizione “Contro la minestra” : «…. Or tu sei , Minestra, de’ versi miei l’oggetto, / E dir di abominarti mi apporta un gran diletto / …..O cibo, invan gradito dal genere nostro umano! / Cibo negletto, e vile, degno d’umil villano! / …. E dir potrete vile un cibo delicato, / Che spesso è il sol ristoro d’un povero malato? / Ah questo è uno sproposito, che deve esser punito. / ….. Lasciate la minestra, che se non è di danno, / E’ almen di seccatura…. / ….. Io forse da qualcun talor sarò burlato, /  Ma non m’importa bastami, d’essermi un po’ sfogato. » E veniamo ai dolci; alla fine del 1809 ebbi modo di scrivere in occasione dell’Epifania una lettera immaginaria firmata dalla  Befana e destinata alla marchesa Roberti, assidua frequentatrice di casa Leopardi: « Ma la neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momenti per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagatelle per cotesti figlioli, accionchè siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda… Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col Caffè che già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali, e non siate stitica   perché chi vuole la Conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamerà la Conversazione del Pasticcio.»

 

 

D: ci puoi descrivere i personaggi del tuo poemetto i Paralipomeni alla Batracomiomachia (la Guerra dei topi e delle Rane)?
R: certamente: il topo protagonista l’ho chiamato Rubabriciole, ma tutti i nomi di questi roditori rivelano la loro compiaciuta tendenza al parassitaggio alimentare delle dispense, poiché il padre di Rubabriciole è Rodipane, la madre Leccamacine, a sua volta figlia di Mangiaprosciutti. Tra gli altri personaggi Leccapiatti, Mangiacavoli, Foraprosciutti, Fiutacucine, Rubamiche, Rodiporro, Mangiagran, Rubatocchi, Insidiapane e persimo Mantapignatte figlio del semideo Scavaformaggio;

 

D:  e cosa dire delle tue riflessioni e memorie sul cibo e le tradizioni conviviali nelle tue lettere, il tuo Epistolario quasi golosario?
4R: certo non consapevolmente,  le mie lettere ai familiari sono risultate un prezioso repertorio delle tradizioni della mensa e sui saperi alimentari della mia epoca e emerge un inedito attaccamento alle tradizioni delle Marche. I miei viaggi contribuirono a radicarmi alcuni atteggiamenti e preferenze conviviali: la mia prima esperienza fuori da Recanati, a Roma, compresi il disagio di mangiare in compagnia (ero dagli zii Antici e in una lettera a mio fratello stigmatizzavo il loro “ciarlare a tavola in presenza dei ragazzi e dei servitori”)  e facendomi maturare la predilezione del mangiare solitario, con una deroga a questo principio nella mia permanenza a Bologna la città “dotta e grassa”. Qui sono diventato un grande consumatore di bevande nervine come la cioccolata ed il caffè, che darà il nome al locale pubblico per la sua mescita, un luogo ottimale di ritrovo di personalità della scienza, delle lettere e delle arti e importante per i miei interessi e ambizioni di farmi conoscere e stringere contatti proficui;

 

D: sicuramente la corrispondenza con i parenti di Recanati durante questo periodo bolognese registra il tuo apprezzamento per le prelibatezze marchigiane “comparse con onore in una delle più splendide tavole di Bologna”; ci vuoi parlare delle lettere a tuo padre Monaldo del febbraio 1826?
R: l’8 febbraio da Bologna scrivevo a mio padre Monaldo:«Il dono che Ella mi manda mi sarà carissimo, e mi servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che l’olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che qui si stimano più del parmigiano, il quale non ardisce di comparire in una tavola signorile: bensì vi comparisce una forma di formaggio della Marca, quando se ne può avere, che è cosa rara.» poi il 20 febbraio aggiungo:« Carissimo Signor Padre (…) i fichi e l’olio sono qui applauditissimi e graditissimi, e quantunque in casa io non fossi solito mangiar de’ fichi, adesso, non so come, trovo che sono pure una cosa di sapore eccellente, e ho pensato di salvarne un poco anche per me, giacchè Ella me ne ha favorito così liberamente che ve n’è abbastanza per me e per gli altri. E’ ben giusta la sua meraviglia che costà non si pensi punto a far commercio di formaggi con queste parti, dove non si fa formaggio se non pochissimo e cattivo. Veramente si può scusare l’indolenza della nostra Provincia nel mettere a profitto i tanti generi squisiti che essa possiede, e che eccedono il consumo dell’interno: guiacchè i formaggi non solo il solo capo che manca in altre parti d’Italia, e che sarebbe ben accolto, ma noi abbiamo ancora molti e molti altri capi che da noi non si stimano e non si trovano a vendere perché sovrabbondano, e altrove sarebbero ricercatissimi. … Certo non fa per i possidenti di attendere al traffico: ma se nella nostra provincia ci fossero altri che vi attendessero, si arricchirebbero essi, e i possidenti avrebbero modo di vendere i loro generi a prezzi convenienti. » Vorrei ricordare che a febbraio non c’erano i fichi; quelli che ho citato sono i “salami di fichi o lonzini”, dolciumi ancora oggi tipicità locali e addirittura Presidio Slow Food, dolciumi all’epoca concessi in Quaresima di Pasqua in quanto non considerati come cibo voluttuario e accessorio.

 

D: sempre in queste lettere del periodo bolognese offri una riflessione sorprendentemente tecnicistica di metodologia culinaria a Monaldo; ci parli del “lattemele”?
5R: il 1 giugno 1827 scrivevo: «La ricetta del latte e mele è molto semplice , perché consiste in fior di latte o panna, gelatina non salata, e zucchero a piacere. Ma il principale consiste nella manipolazione… vedo che insomma tutto l’affare consiste nella pratica e nell’attività manuale del cuoco…»  Questo dolce da me golosamente apprezzato è quello che voi chiamate panna cotta, un dolce al cucchiaio o budino, e mele è l’antico modo di chiamare il miele dalla dizione latina “mel”. A mia sorella Paolina, anch’essa amante dei dolci, da Pisa ho scritto: «Se provaste le schiacciate che si usano qui per Pasqua, son certo che vi piacerebbero più che la crescia: io ne manderei una per la posta …., ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per posta anche il forno.» Poi  proseguivo ricordando il gioco della scoccetta, ossia il gioco di sbattere tra loro le uova sode per vedere quali si rompono per prime, divertimento tradizionale della Pasqua marchigiana;

 

D: recentemente, presso la –Biblioteca Nazionale di Napoli è stato trovato una tua lista di 49 “desiderata” di cucina; che cos’è questo vademecum di predilezioni gastronomiche?
6R: capisco che è difficile interpretare il senso della lista di pietanze da me redatte nell’ultimo periodo della mia vita passato a Napoli con l’amico Ranieri poiché non contiene indicazioni ulteriori al di là del mero incolonnamento dei cibi e delle preparazioni. Questa è la trascrizione letterale della carta manoscritta: 1. Tortellini di magro. 2. Maccheroni o Tagliolini. 3. Capellini al burro. 4. Bodin di Capellini. 5. Bodin di latte. 6. Bodin di Polenta 7. Bodin di riso. 8. Riso al burro. 9. Frittelle di riso. 10. Frittelle di mele e pere. 11. Frittelle di Borraggine. 12. Frittelle di semolino. 14. Gnocchi di polenta. 15. Bignès. 16. Bignès di patate. 17. Patate al burro. 18. Carciofi fritti, al burro, con salsa d’uova. 19. Zucche Fritte. 20 Fiori di Zucca fritti. 21 Cavoli fiori. 22 Selleri. 23. Ricotta fritta. 24. Ravaiuoli. 25. Bodin di ricotta. 26. Pan dorato. 27. Latte fritto, crema. 28. Purèe di fagiuoli. 29. Cervelli fritti, al burro, in cibreo. 30. Pesce. 31. Pasta frolla al burro o strutto, pasticcetti. 32 Paste sfogliate. 33. Spinaci. 34. Uova. 35. Latte a bagno-maria. 36. Gnocchi di latte. 37. Erbe strascinate. 38. Rape. 39. Cacio cotto. 40. Polpette. 41. Chifel fritti. 42. Prosciutto. 43. Tonno. 44. Frappe. 45 Pasticcini di maccheroni o di maccheroncini, di grasso e magro. 46. Fegatini. 47. Zucche o insalate con ripieno di carne. 48 Lingua. 49 Farinata di riso. Trapela, comunque, la mia grande passione per la pasta sfogliata tagliata minutamente a mano: oltre ai  Maccheroni napoletani, i Tagliolini marchigiani come anche i Maccheroncini (oggi rinomati quelli di Campofilone) e i Capellini al burro o in bodin; ma anche la pasta ripiena i primi della lista Tortellini di magro bolognesi  e i Ravaiuoli marchigiani come la Polenta nobilitata come bodin o come Gnocchi (questi ultimi nella cucina povera della Marca era considerato come accorto reimpiego degli avanzi). Poca carne e pesce mentre i vegetali mi aggradano parecchio; trovate spinaci, rapa, cavoli fiori, sellari (sedani)e erbe strascinate, una viva tradizione rurale di Marca tuttora viva, cioè le piante spontanee raccolte nei luoghi incolti. Gradisco molto anche i carciofi, zucca e fiori di zucca, borraggine, le mele e pere. Non posso infine nascondere l’altra mia grande passione: i dolci. E’ risaputo che la pasticceria, la gelateria e l’arte dolciaria hanno rappresentato un ricorrente conforto alla mia esistenza. Secondo alcuni fu proprio la mia irresistibile golosità per le specialità zuccherine una delle cause della mia prematura morte; l’amico Ranieri, sinceramente con troppa enfasi nel suo memoriale napoletano, ha insistito sul chilo di confetti di Sulmona oltre ad una doppia granita che ho trangugiato poche ore prima di morire. A Napoli, a trentanove anni, il 14 giugno 1837, mentre in città impazzava il colera.

 

D: e per chiudere in bellezza, parliamo del tuo rapporto con il vino; per riallacciarmi ad una delle lettere da Bologna a Monaldo («… E i nostri vini, che noi mandiamo solamente a Roma e in piccola quantità, mentre ne abbiamo tanta abbondanza, non si venderebbero qui nel Bolognese a preferenza di questi vini fatturati e pessimi della provincia, tutti ingrati al gusto, e scomunicati generalmente da tutti i  medici?….  ») cosa annotavi sullo Zibaldone?
R: certi miei studiosi sono rimasti legati al loro schema prefabbricato secondo il quale, soffocato dal mio pessimismo cosmico, il poeta del dolore, un pallido, malaticcio e depresso, come potevo amare il vino, che è vita, gioia, sogno, amore, vigore avendo anche scritto che «io mangio poco e non bevo vino: fo solo un pasto, con una piccola colazione la mattina»? Basta scorrere l’Indice del mio Zibaldone di Pensieri per trovare in bella vista la voce “vino” seguita dal richiamo di varie pagine e poi “vedi ubriachezza”, e ancora la nota in grassetto “Piacere del vino è misto di corporale e di spirituale”. Qualcuno si è accorto che tra le 555 schedine dell’indice –una sorta di scheda computerizzata ante litteram–  compare la voce vino, con una serie di rinvii alle voci ad esso connesse che sono: amore, assuefazione, consolazione, coraggio, entusiasmo, galateo morale, immaginazione, lirica, machiavellismo di società, piacere, rapporti, spirito (esprit), ubriachezza, verità, vigore corporale, vitalità, sensibilità, Manuale di filosofia, Memorie della mia vita, Trattato delle passioni.

 

D: incredibile! si potrebbe finire qui perché troppo lungo riportare tutti questi rimandi. Perché no allora una sintesi?
7R: «…. si può osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di straordinario e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo proclivissimi all’entusiasmo, né però questo entusiasmo ha nulla di malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave mestizia e la pietà non trova luogo allor nel cuore nostro …., ma il vigore che proviamo dà un risalto straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell’amor patrio, dei sacrifizi generosi(ma considerati come bene non come sventura)….. Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un’aria di festa, che la felicità non ci pare un’illusione, anzi ancor le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d’entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell’abitudine contratta colla esperienza della vitaZibaldone, 8 gennaio 1820. «L’ubriachezza è madre dell’allegrezza, così il vigore… Perché … non cagiona la malinconia? Prima perché questa deriva dal vero e non dal falso, e l’ubriachezza cagiona la dimenticanza de’ vero, dalla quale sola può nascere l’allegrezza… » Zibaldone, 30 aprile 1820. «Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore. Dunque il vigore, dunque la natura.» Zibaldone, 14 novembre 1820.

 

D: ne hai altre?
R: «Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia con i vantaggi della disinvoltura Non so quanto bene il vino …. sopisca i dolori dell’animo. Bensì rallegrerà le passioni dominanti, e darà speranza anche allo sventurato in amore. » Zibaldone, 16 gennaio 1821. « L’esaltamento di forze proveniente da’ liquori o da cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico …., essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto essenziale di essa, ch’è il desiderio del piacere, perocchè coll’intensità della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è è piacere…Zibaldone, 5 novembre 1823. «il vino, il cibo, dà talvolta una straordinaria prontezza, vivacità, rapidità, facilità, fecondità d’idee, di ragionare, d’immaginare, di motti, d’arguzie, sali, risposte, vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall’uno all’altro senza perderne il filo, volubilità somma di mente…. Ma quell’accrescimento di facoltà prodotto dal vino è indipendente per se stesso dall’assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, ..divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi… » Zibaldone, 14 novembre 1823;

 

D: non rischi di apparire un avvinazzato da osteria, non adatto al tuo status nobiliare?
R: Attenzione scrivo di un bere il vino non morboso che ci fa stare in uno stato di vigore senza turbare la ragione e quindi pongo un limite oltre il quale: «E’ da notare però che l’ubriachezza anche quando esalta le forze, e cagiona una non ordinaria vivacità ed attività ed azione esteriore o interiore, …., o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, d’irriflessione, d’anaisthesia, … Ella infatti per sua proprietà trae l’uomo … fuori di se stesso, e in certa maniera, quando più quando meno, lo acceca, lo trasporta, lega le sue facoltà, ne sospende l’uso libero….. il quale eccesso è nella ubriachezza quello che scema e mortifica il sentimento della vita (secondo che il troppo è padre del nulla..) e quasi estingue l’animo…» Zibaldone, 24 novembre 1823. «L’ebbro ancorché vivente, operante e pensante e parlante, non riflette sopra se stesso, né sulla sua vita, azioni, pensieri e parole. Infatti il timido suol divenir franco, sciolto in quel punto…. egli acquista allora una facoltà d’irriflessione, necessaria e madre della franchezza… Ma questa è una riflessione non riflettuta e quasi organica, e un’azione quasi meccanica del suo cervello e della sua lingua…. e guidata appena appena dall’animo e dalla ragione, e un effetto … spontaneo ed automatos delle abitudini contratte ed esercitate e possedute fuori di quello stato, le quali agiscono allora con pochissimo intervento della volontà e dello stesso intelletto… » Zibaldone, 27 novembre 1823.

 

D: cosa vuoi aggiungere per congedarci?
R: «Vino. Il piacere del vino è misto di corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste principalmente nello spirito…» Zibaldone, Firenze 17 luglio 1827.

   

Bibliografia:

 

– Foschi, F., 1994, Il piacere del vino (e l’ubriachezza). Scritti di Giacomo Leopardi, Biemmegraf, Macerata;

Leopardi, G., 2011, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, Piano B Edizioni, Prato;

Leopardi, G., 1937, Zibaldone dei pensieri, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano; 

– Pasquariello, D. – Tubelli, A., 2008, Leopardi a tavola, 49 cibi della lista autografa di Giacomo Leopardi a       Napoli, Fausto Lupetti Editore, Bologna;

Lucchetti, T., 2012, Il poeta e la sua mensa. Memorie e sapori nella vita e nell’opera di Giacomo Leopardi, Il Lavoro Editoriale, Ancona.

 

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